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LEARNING TO FLY

é il 12 maggio e fa ancora un freddo cane. Solo una settimana prima, qui dove sto mangiando ora, mezzo congelato, c’era la neve. Risalgo in bicicletta in fretta perchè non voglio raffreddarmi ulteriormente, inizio la discesa che da Selvino ti porta in valle, poi la strada per S. Pellegrino e infine la Val Taleggio. Riccardo è davanti a me, scende e sale più veloce. Mi aspetta ogni volta a fine salita o a fine discesa. La strada è praticamente deserta, poche macchine e pochi ciclisti in una zona che invece in una domenica di maggio come questa normalmente ne conterebbe centinaia. L’asfalto è brutto come sempre, pieno di brecciolino, e oggi anche un po’ bagnato. Mentre penso che ormai non manca molto alla fine della discesa succede qualcosa: comincio ad oscillare. Destra. Sinistra. Destra. Mi rendo conto che non controllo più la bicicletta, che sono in piedi, ma ancora per poco. Sto per cadere. Aspetto di sentire l’impatto con la strada. Finché arriva. Riapro gli occhi e mi alzo in piedi. Mi sembra di essere tutto intero. Le ginocchia abrase, le mani scorticate. Vedo una goccia di sangue a terra, ne sento altre che mi scendono dal naso. Due ciclisti in bici stanno risalendo, si fermano. Mi aiutano. Avviso Riccardo, riprende la salita e arriva dopo qualche minuto. Poi l’ambulanza, il pronto soccorso, medicazioni, punti. 11. E due settimane di fermo.

LA TERRA DI MEZZO

il 2 giugno sono a Zavattarello, tra le colline di Pavia e Piacenza. Le gambe sono quello che sono, la preparazione forzatamente scarsa. 70km e 2000 metri mi aspettano. Non sono molto preparato e in più faccio un errore fatale al mattino, a colazione. Mangio male, tardi, non nei tempi che vorrei. Alla partenza capisco subito che non sto bene. Ok essere fuori forma, ma proprio le gambe non vanno. Sono stanchissimo già al decimo kilometro e di salite ce ne sono ancora tante. Non ce la faccio, continuo a pensare. Mi riprendo quando ormai è troppo tardi e riesco a fare l’ultima salita un po’ meglio. Sento di aver recuperato qualcosa, ma è troppo poco. Arrivo al traguardo e tutto sommato è andata bene: se penso a come stavo al kilometro 10 è quasi un successo.

IN CIMA. TORNANTI

sabato 8 giugno. Si parte per lo Spluga. 30 km di salita. Alcuni tratti più severi, altri decisamente in piano. Ma 30 kilometri sono sempre 30 kilometri, in salita. Le sensazioni sono buone, vado su tranquillo, con il mio passo, non devo andare in debito subito. Il mio solito affanno da se-avessi-iniziato-15-anni-fa-adesso-sarei-uno-scalatore. Il paesaggio è splendido, i tornanti che ogni tanto con la coda dell’occhio riesco a vedere sotto di me, bellissimi. La strada spiana e rifiato, poi si risale verso la diga. Oggi sarà la mia prima volta sopra i 2000 metri. Se ci penso bene, non credo di esserci mai stato nemmeno a piedi, sopra i 2000. Ci sono resti di neve, lo specchio d’acqua del lago artificiale riflette le montagne, è tutto molto bello e silenzioso. Ci manca solo l’ultimo pezzo. Finora sono andato bene, bene per me. Poi quando mi sembra manchi ormai poco mi sento improvvisamente svuotato, qualcosa nello stomaco che non va. Ho anche un brivido di freddo. Mi fermo e mangio una barretta. Rimango lì 5 minuti e poi riparto. Quasi non faccio in tempo a riprendere il ritmo che sono arrivato al cartello del Passo. Forse avrei potuto resistere.

VAUCLUSE

seduto in veranda guardo il cielo, scurissimo e minaccioso. Le nuvole sembrano ovunque, i rumori dei tuoni in lontananza non lasciano presagire nulla di buono. Quando qualche ora prima, nella piazza di Vaison La Romaine, Dalma ha chiesto rassicurazioni sul tempo, sono stati perentori: domani sarà bellissimo. E sorridete.

Ormai siamo tutti qui. Stiamo praticamente tutta la sera a cercare di capire quanto sarà difficile l’indomani. Consapevoli che per quante analisi potremmo mai fare, nessuna di queste ci restituirà la difficoltà di quello che ci aspetta. L’atmosfera è perfetta. Siamo una squadra che in realtà – tecnicamente – non è una squadra: troppo diversi per età, preparazione, forza. Ma siamo una squadra, lo so prima di partire, ne avrò la conferma una volta arrivato. La notte passa con gli occhi aperti praticamente ad ogni ora, fino al momento in cui mi devo alzare. Errori di alimentazione non ne posso fare, mi sono persino portato il necessario da casa per evitarli. Indossiamo tutti la stessa maglia, carichiamo le macchine e si va alla griglia di partenza.

Siamo tra i primi nello schieramento, non ci sono limitazioni di accesso date dal numero di pettorale. Una massa uniforme di maglie blu/verde smeraldo attende con impazienza il via. So già che questi saranno gli unici minuti in cui saremo vicini, dopo pochi metri perderò contatto e inizierò questi 135 km da solo. Si parte.

Mi sono fatto il mio schema di avvicinamento al Mont Ventoux, un adesivo sul tubo orizzontale: gli attacchi delle salite, i numeri dei km belli in vista, ristori e il punto in cui dovrò iniziare gli ultimi, brutali, 21 km. Il percorso è bello già dai primi momenti, si formano gruppetti, io cerco di ascoltarmi più che posso. Un po’ devo risparmiare le forze, non sono preparato come avrei voluto e in ogni caso non ho mai affrontato né così tanti kilometri né un arrivo in salita di queste proporzioni. Ma vado. La prima salita scorre via senza troppi problemi, la mia tabella sembra perfettamente sincronizzata, so quello che mi aspetta. Mangio più spesso del solito, la salita dello Spluga in questo senso è stata molto istruttiva. Mi fermo ai ristori sempre. Non perdo troppo tempo, ma mi fermo sempre. Mangio, bevo. E riparto. Rapidamente si arriva al bivio del km 40. Qui si decide se fare i 135 km o farne “solo” 78. Molti optano per la svolta a destra, il percorso breve. Finisco la mia barretta e vado per i 135. Un commissario mi guarda, mi sorride e mi grida: Allez, allez! Ma sì, penso, allez, allez! e inizio i 15 km della terza salita. Controllo l’ora, devo arrivare in tempo prima che chiudano il “cancello”. Se sforo non avrò possibilità di provare a salire in cima. Non dovrei avere problemi, nonostante la mia lentezza in discesa, dovrei riuscire a coprire i 60 km, dopo il GPM, con una media decente. Intanto mentre saliamo più o meno tutti alla stessa velocità, iniziamo a vedere la cima del Mont Ventoux, dalla parte opposta della valle. E sembra lontanissimo, lontanissimo e impossibile. La strada è un concentrato di bellezza ad ogni curva. Qualcuno non resiste e si ferma a fare fotografie, qualcuno con più confidenza in sella, estrae il telefono e lo fotografa senza smettere di pedalare in salita. Io mi limito a guardarlo ammirato. Poi finalmente si scollina. Mi aspetta un lunghissimo tratto in discesa, prima più ripido poi più dolce. Faccio il possibile per non restare da solo nella parte più esposta al vento, ma riesco a fare una buona velocità e quindi a volte proseguo da solo. La leggera pendenza favorevole mi spinge fino all’ultimo ristoro prima della salita, quella vera. Normalmente qui finirebbe una granfondo. Questa è stata la distanza con cui di solito mi confrontavo: poco più di 100 km. Oggi invece, tutto inizia qui. Tutta la strada fatta finora è come se non contasse nulla, arrivare fin qui, al km 114, non ti darà nulla. Fosse anche la tua miglior prestazione, non conterebbe niente. Quello che conta davvero, sono questi ultimi mitici 21 km. E allora iniziamo, che i primi 5 almeno sono affrontabili.

IL GIGANTE

non sono molto propenso a credere a chi ha poteri sovrannaturali. non credo sia possibile spostare una monetina con la forza del pensiero. Ma dopo il secondo kilometro al 10% posso dire con certezza che la mia bicicletta è andata su con la spinta della mia testa, non di certo con quella delle gambe. Nonostante intorno passi qualche macchina, tutto sembra avvolto nel silenzio. Gli unici rumori che tutti possono percepire è lo scatto metallico dei più fortunati che ancora hanno la possibilità di scalare un pignone, la frustata che si sprigiona da chi si alza sui pedali di una bici al carbonio, il tlac inconfondibile della tacchetta di chi si ferma per respirare. Io sono al limite e lo so. Continuo a guardare la strada e il display di fronte a me. Quanto manca, a quanto sto andando. Realizzo che mi mancano 6 km allo Chalet Reynard e sto salendo a 6km/h, un’altra ora in bici senza poter respirare. Vedo l’indicazione del ristoro. Mi fermo e respiro. Respiro a fondo per abbassare il mio ritmo cardiaco. Temo di non farcela. Ho il terrore di non farcela. Se mi rimetto in sella e dopo pochi metri mi ritrovo in affanno dovrò rinunciare. Non posso fare questi ultimi 12 km a 100 metri alla volta. Invece una volta che riparto recupero un po’ di forza. Piano piano salgo. Mi fermo un’altra volta prima della pausa davanti allo Chalet. Vedo gente seduta ai tavolini e io penso che mi mancano 6 km. In pratica un’altra ora, (in realtà mi basteranno 55 minuti). Appena riparto ho solo una cosa negli occhi: la torre bianca e rossa. In testa la volontà di arrivare ai 1912 m. a costo di fermarmi ogni 2 km, lassù – adesso – ci devo arrivare. Sono troppo vicino per rinunciare. Non posso non farcela. Soprattutto non voglio. Una ciclista olandese mi supera e mi guarda, devo avere una faccia molto sofferente perchè mi grida un “Come on, come on”. Io vorrei sorridere ma riesco a malapena a fare una smorfia. Alla mia destra il cartello che ho fotografato qualche anno fa: 6 km. Poco sotto l’indicazione sulle caratteristiche pietre bianche e gialle: leggo 7% ed è come se fosse discesa. Tre gradi percentuali in meno e riesco a scalare un pignone, vado un po’ più forte, il cervello continua a dire alle gambe di andare ancora un po’, un ultimo sforzo. Prendo coraggio, supero qualcuno. Vedo la vetta sempre più vicina, cerco di bere. Appena penso di avercela fatta, il Mont Ventoux si irrigidisce un’ultima volta e sono costretto a prendere una pausa. So che manca poco, meno di un kilometro ma le pulsazioni sono troppo al limite. Devo veramente respirare. Appoggio le braccia al manubrio, la testa bassa. Mi tiro su, approfitto di 50 cm di piano e mi rimetto in strada. 750 metri. La torre è sopra di me ormai, quasi la sento. 500 metri. uno due e ci sono, uno due e ci sono. Supero un inglese con una lunga barba rossa. manca davvero poco. Un signore francese, con una polo azzurra, i capelli bianchi (l’ho visto 2 secondi ma non lo dimenticherò mai) grida: deux cent cinquante mètres et c’est fini! 250 metri. Il tornante, l’ultimo tornante. 10 metri, il traguardo. Sono arrivato ai 1912 m. Sono sul Mont Ventoux. Vorrei gridare ma mi manca il fiato, strozzato tra un mix di risa e pianto. Chiamo casa e non capiscono cosa stia dicendo. In realtà sarebbe piuttosto semplice: ce l’ho fatta, ce l’ho fatta.

A-TEAM

Ho fatto due foto, ho messo la mantellina e non vedo l’ora di scendere. Quando dopo un paio di tornanti mi ritrovo su un piano inclinato al 10% ringrazio di aver spento il ciclocomputer perchè ho paura di sapere a quanto sto scendendo. Nel dubbio freno un po’. Altri 20 km di discesa poi un tratto di pianura che si rivela una tortura: vento in faccia per tutto il tempo e io sono stanco. Ora sì che sono stanco. I 7 km a Vaison mi sembrano i più lunghi 7 km del mondo, ma finalmente prendo la rotonda e giro a sinistra, un’altra svolta e sono in piazza. Sto ancora cercando di mettere a fuoco che sento le grida: Eccolo! Mi hanno aspettato tutti. Sono l’ultimo ma mi hanno aspettato tutti, qualcuno anche per ore. Anche quelli che dovranno affrontare il lungo viaggio di ritorno di lì a poco. Non credo di averli ringraziati in quel momento, lo faccio ora. Grazie. Non ho nemmeno detto di aver pensato di far parte di una squadra, ma l’ho sentito. Ed è stato bello. Grazie. Come è stato bello tutto. Sofferto, doloroso a volte, intenso. Sicuramente la cosa più faticosa che ho fatto in vita mia.

La rifarei domani.

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