La seconda volta
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Ore 5:00. La sveglia suona che è ancora buio. Mi alzo rapidamente, come faccio sempre in queste situazioni. Mi alzo e mi vesto. Qualche ora prima ho sistemato tutto, ho scelto le calze, i pantaloncini, la maglia intima, il jersey rosso e grigio, la maglia della nostra squadra. Le previsioni meteo sono incerte, metto il naso fuori dalla finestra. Si vedono delle nuvole nel cielo ancora scuro. Speriamo bene, penso. Scendo a fare colazione e incrocio altre 4 anime perse, come me. Ognuno con il proprio rituale, fatto di yogurt e muesli o acqua calda e porridge. Io mi limito a 5 fette biscottate, un po’ di marmellata e una tortina. Quelli che vanno per vincere – di solito – li riconosci dal contenitore in plastica portato da casa, colmo di riso in bianco. Anche la bicicletta l’ho sistemata la sera prima. Una pulita generale, il gonfiaggio dei copertoncini, il controllo delle pinze dei freni. Esco di fuori, di nuovo. Fa freddo ma non troppo, penso che terrò il “corto” sulle gambe. Guardo l’ora e visto che devo fare un po’ di strada per arrivare in griglia, mi preparo ad andare. Accendo la luce rossa lampeggiante e scendo in strada. Non c’è nessuno in questa via, ma mi basta percorrere poche centinaia di metri per vedere uno sciame di lucine rosse che si dirigono tutte nella stessa direzione, quasi fossero attirate magicamente da una forza invisibile. Invisibile ma con un nome preciso: passione.
Ore 6:30. Entro in griglia alle prime luci dell’alba. Ricordo questo chiarore, identico, di un anno prima. Alla mia prima esperienza in una granfondo. L’alba sul lago, la luce rosata che illuminava tutti questi caschetti assiepati tra le transenne. Entro e aspetto gli altri, dovrebbero essere qui a momenti. Anche se ci si incrocia solo per qualche minuto, o forse anche meno, è bello vedersi e scambiarsi un incoraggiamento. Ognuno per il proprio obiettivo. Grande o piccolo che sia.
Ore 7:00. Ci siamo, si parte.
La mia seconda volta.
Della mia prima volta ho dei ricordi precisi di alcuni momenti e il vuoto totale di altri. Alcune cose sono cambiate, ma so cosa aspettarmi e credo mi possa tornare utile. Il gruppo si muove e mi sembra di mettere i piedi sui pedali prima del previsto, mi sto già muovendo in sella alla bicicletta. Accelero un po’, esco dal tratto transennato e sono sul percorso vero e proprio. Le prime curve, penso che devo stare attento, ma mi sento tranquillo. Il gruppo si allunga e si allarga, cerco di recuperare. Mi butto nel flusso, e penso solo ad andare. Cerco di ascoltarmi, di prendere il mio ritmo. Respiro, pedalo, respiro. Butto gli occhi sui kilometri e vedo che quasi ci siamo. Siamo quasi ai 30 km. Un cartello ci avvisa di spostarci sulla sinistra, ci siamo davvero. La prima salita. So che si impenna subito, me la ricordo bene. Curva a sinistra, poi si va su. Vedo il bivio, la mano sinistra muove la leva e scendo sulla corona piccola. Prendo la curva e spingo un po’ più forte. Un rumore metallico, scandito, riempie lo spazio per qualche secondo. La prima salita. Pedalo, so che sta per arrivare il pezzo più ripido, scalo e vado. Le gambe le sento bene, riesco a sorpassare qualcuno più lento, cerco di ascoltarmi. Nè troppo nè troppo poco, conosco esattamente la sensazione giusta, devo solo trovarla. La combinazione perfetta tra testa, gambe e cuore. Appena mi sembra di averla trovata non penso più a niente se non ad andare avanti. 200 metri al ristoro. Mi fermo giusto il tempo di mangiare una cosa e bere un po’, poi riparto. Sto andando bene. Mi ricordo della sosta della prima volta, sto decisamente meglio. La discesa, poi qualche saliscendi e poi la pianura fino all’ultima salita. Quando arrivo in piano trovo davanti a me un gruppetto, non sono distanti e con una piccola accelerazione li aggancio. Hanno un ritmo che posso reggere e mi accodo. Faccio un paio di cambiate, devo trovare il giusto equilibrio. Mi sembra di esserci quando improvvisamente la ruota davanti a me si allontana di qualche metro, faccio per aumentare la velocità, ma qualcosa non funziona come dovrebbe. Faccio troppa fatica, devo desistere e lasciarli andare.

Qualche ora più tardi, dal divano di casa guardo gli ultimi kilometri del Giro delle Fiandre, Bettiol è ormai scattato, il gruppo alle sue spalle cerca di organizzarsi per andare a riprenderlo. Le telecamere inquadrano i ciclisti alle sue spalle che aumentano la velocità e si vede la maglia rossa di Matthews che si stacca, senza un motivo apparente. Rimane fatalmente indietro. Succede anche ai migliori, I feel you bro.

Qualcuno lo riprendo in salita. Le pendenze non sono proibitive, e nonostante cominci ad accusare la stanchezza, riesco a salire con un passo decente. Arrivo al ristoro ma non mi fermo, decido di andare anche perchè vedo davanti a me un obiettivo raggiungibile: meno di 4 ore. Ogni tanto qualche strappetto stoppa l’entusiasmo, ma appena la strada comincia di nuovo a scendere, le gambe girano veloci. Ed è in uno di questi momenti che sento una specie di rumore di fondo, come un motivo, un suono, qualcosa di familiare che non riesco a decifrare.
Non ci penso e pedalo.
Ogni volta che la strada sale e poi di nuovo scende, quella stessa sensazione, qualcosa che si infila nel cervello, nel profondo, ma che fatica ad emergere. Non ci penso e pedalo.
Ultimi 10 km, dice il cartello. Capisco che posso farcela davvero. Vedo il tempo, vedo la media che oscilla tra i 26 e i 27 km/h.
Non ci penso e pedalo.
5 km all’arrivo. Vorrei andare più forte, ma non ci riesco. Rallento un po’, non voglio piantarmi completamente proprio adesso. 3 km all’arrivo. Ormai ci siamo. Posso farcela, so che posso farcela. Meno di 4 ore. E quel suono che torna a ronzare nella testa. So che è lì da qualche parte, ma non posso stare a rimuginarci troppo.
Non ci penso e pedalo.
Ultimo kilometro. Ed è qui che non sento più nulla. Non è la fuga del Fiandre, non è la volata della Milano Sanremo. Lo so. Ci siamo solo io e quel tempo che scorre, tempo che dice tre ore e cinquantotto minuti…Ho le mani in presa bassa, non devo fare altro che andare dritto, dritto e pedalare con tutte le energie che mi restano per gli ultimi 500 metri. Tre ore e cinquantanove minuti…mancano 50 metri. E finalmente quel suono, quel mantra che se ne stava nelle pieghe del mio cervello, viene a galla, distintamente, perfettamente scandito: “sciogliereeee…sciogliereeee…”

Passo il traguardo, sono sotto le 4 ore.

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